Abbondano i messaggi giovanili, pieni di entusiasmo per il poeta romantico, ma anche di interrogativi: «Leopardi è veramente pessimista?» oppure in termini più banali: «Era un depresso?» Sono i clichés che soprattutto nella scuola accompagnano la figura di un poeta apparso vittima di quella «natura matrigna» indifferente ai destini dell'uomo. Ma già il De Sanctis aveva scritto: «Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto...E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore...È scettico, e ti fa credente». In realtà, Leopardi è un poeta innamorato della gioventù e tutt'altro che rassegnato alla sorte. Non pochi, tra i giovani, avvertono questa sua disposizione d'animo e mostrano di riconoscersi nel suo idealismo sentimentale. Una delle poesie più citate è, per esempio, «A Silvia», ma non manca «Il passero solitario», emblema di un momento di solitudine che molti, nell'adolescenza, attraversano. A far breccia nell'animo dei giovani è soprattutto la semplicità del dettato, resa ancora più suggestiva da quella patina di antico che il poeta studiosamente cercava. A presentare un Leopardi «positivo» ha provveduto la critica più recente. Soltanto fra il 2008 e il 2010 sono usciti ben dodici titoli, che si aggiungono alla già sterminata bibliografia leopardiana. Leopardi, ha scritto Luigi Blasucci, non è il poeta dell'orrore, ma del mancato valore, e su questo si è sostanzialmente d'accordo. Non pochi, e tra di essi è Emanuele Severino, hanno visto nell'autore dello «Zibaldone» e delle «Operette Morali» la statura del filosofo. Per Alberto Folin, ad esempio, autore di «Leopardi e il canto dell'addio» (Marsilio), Leopardi non è un pensatore «pessimista», ma neppure nihilista: il suo «nulla», cifrato nel celebre verso «e il naufragar m'è dolce in questo mare», rappresenta, nel senso di Heidegger, il nascondimento dell'Essere, che è come dire le sue infinite possibilità. Indubbiamente, come scrive Piero Bigongiari, in Leopardi la poesia è il fiore, l'acme, del pensiero, ma la novità dei Canti sta nella riappropriazione del melos, della musica, da parte della parola. Su questa linea è il saggio di Marino Brioschi «La poesia senza nome» (Il Saggiatore). Leopardi sa bene che l'opera poetica è legata al tempo storico, e perciò va alla ricerca di quella poesia assoluta, «senza nome», capace di restituire intatta la voce della natura. In questo la lezione dei classici è fondamentale, come appare anche dalle annotazioni dello Zibaldone (ad esempio, «notte bella come nella similitudine di Omero», «luna come nell'idillio di Mosco», ecc.). Si sbaglierebbe però a ritenere le «immagini antiche» dei Canti delle reminiscenze letterarie. Si tratta, in realtà, di una profonda compenetrazione con quei greci che (come disse Pietro Giordani) «gli fecero conoscer il mondo di duemil'anni addietro prima che il presente». Particolarmente suggestiva, a questo riguardo, è «La quiete dopo la tempesta». L'idillio sembra ricalcare punto per punto un frammento di Callimaco, che descrive un momento analogo: il risveglio della vita dopo il sonno della notte. Senonché Leopardi non poteva conoscere quel brano, trovato in Egitto su di una tavoletta lignea nel 1877, quarant'anni dopo la sua morte, e pubblicato dal Gomperz nel 1893. La scoperta, degna di un racconto di Borges, è di Emilio Peruzzi, appassionato studioso di Leopardi e autore dell'edizione critica dei Canti. «Leopardi - scrive Peruzzi - ha la sensibilità di un greco e perciò, come volle rifare istintivamente il canto perduto di Simonide per gli eroi delle Termopili, così qui ricrea istintivamente i versi di Callimaco (...) Il giovane recanatese non è un grande conoscitore dei greci: è un greco». Di qui quella semplicità del sentire che ci incanta ancora oggi.
Lucio D'Arcangelo
http://www.iltempo.it/cultura-spettacoli/2011/01/19/di-lucio-d-arcangelo-br-giacomo-leopardi-e-a-tutt-oggi-uno-dei-poeti-piu-letti-ed-amati-1.100168
mercoledì 19 gennaio 2011
venerdì 20 agosto 2010
Quando l'italiano precipita dentro un imbuto e non ne esce più
Il lettore che pensava di trovare un «libro», ossia un discorso organico sulla lingua, nel recente Il mare in un imbuto di Gian Luigi Beccaria, rimarrà deluso. Si tratta, infatti, di una serie di «pezzi» d'occasione, a carattere più didattico che giornalistico, in cui, ad esempio, si spiega che la lingua non segue la logica o che non è fatta solo di parole, ma anche di frasi idiomatiche: cosa che, a dire il vero, tutti sanno. Il più delle volte si opina ( i «penso», «ricordo», «sospetto» abbondano) e l'opinione, si sa, è mutevole, anche se il timore di incorrere in «scorrettezze politiche» è sempre presente. Così, dopo aver «detto ogni bene dell'inglese e dell'esser misti (sic)», l'autore ammette «che la spinta dell'inglese d'America raggiunge oggi eccessi di aggressività di molto superiore a quanto accadeva in passato con altre lingue straniere». Ma il discorso resta in superficie. Non ci si chiede quali siano le cause dell'anglicizzazione, che non è tanto un male in sé, quanto il sintomo, anche se tra i più vistosi, di una disaffezione alla lingua nazionale che dal '70 in poi è stata incoraggiata in mille modi. Il degrado a cui assistiamo oggi non è una fatalità, come sembra pensare Beccaria, ma trova origine in una «volontà politica», espressasi persino nel dettato costituzionale, dove la lingua italiana brilla per la sua assenza. Nessuna meraviglia, quindi, che come notava Giovanni Nencioni, in Italia sia mancata «una politica della lingua» e «una coscienza politica della lingua», o, per meglio dire, se ne sia sviluppata una all'incontrario, come anche questo libro dimostra.
L'autore ha gioco facile nel deplorare «l'antilingua» della burocrazia, delle aziende e dei giornali, di cui offre numerosi esempi. Ma anche qui viene eluso il vero problema, che non è solo italiano, e sta nella pervasività di due fattori concomitanti: la tecnologia e quel «politicamente corretto» per il quale nel libro non si spende una parola.
Per contro abbondano gli umori personali. «Non amo i diminutivi», dice ad esempio Beccaria. Ma poi si esalta per i giochi di parole, insulsi, della Littizzetto e cita, come fosse un dernier cri della ricerca, un articolo inteso a dimostrare le origini zingaresche del cognome Calderoli. Più preoccupante mi sembra, per uno storico della lingua, riproporre quello che ormai, specie dopo gli studi di Luca Serianni, è diventato un luogo comune: l'italiano come lingua puramente letteraria, che, improvvisamente, «a metà del XX secolo», «diventa finalmente la lingua di tutti». E come? Per un colpo di bacchetta magica? E senza l'intervento del nuovo stato unitario? Beccaria sorvola. Afferma che «l'italiano è da difendere», ma si guarda dal dire come.
«Alla lingua non si comanda», si dice nel libro e certamente né Beccaria né il sottoscritto possono aspirare a comandarla. Ma quando si immagina una lingua che si fa da sé ed ignora tutto ciò che viene «dall'alto», si dimentica un insegnamento cardine della linguistica italiana: nella lingua usi ed innovazioni non vengono mai «dal basso». Che successo avrebbe avuto una parola come «inciucio», se non fosse stata pronunciata per la prima volta da una personalità politica? E l'anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi princípî normativi che regolano la lingua non vengono dall'alto, ossia dalla scuola? Beccaria teme che il cosiddetto «italiano medio», diventi «mediocre», e parla, alla Foucault, di un «cumulo di stereotipi che ci parlano, ci consumano lo spazio per riflettere». In realtà, quell'italiano medio non è mai esistito: non è uno standard condiviso, ma un dato ricavato a posteriori sulla base di statistiche per lo più viziate. Quello «mediocre», invece, esiste da tempo, e se oggi deborda si deve anche a quanti nelle scuole e nelle università seguitano a praticarlo.
In ogni caso la semplicità o asciuttezza, invocata sull'esempio di Calvino, può essere un ideale di scrittura (letteraria), ma non certo una ricetta valida per tutti. Una lingua comune può essere diretta ed efficace solo se validata dalla prassi, come si sapeva sin dall'Ottocento e come oggi ribadisce Paul Ricoeur scrivendo: «Il legame fra l'atto del dire e quello del fare non può essere mai del tutto spezzato». Altrimenti le parole perdono di significato.
Lucio D'Arcangelo
http://www.ilgiornale.it/news/quando-l-italiano-precipita-imbuto-e-non-ne-esce-pi.html
L'autore ha gioco facile nel deplorare «l'antilingua» della burocrazia, delle aziende e dei giornali, di cui offre numerosi esempi. Ma anche qui viene eluso il vero problema, che non è solo italiano, e sta nella pervasività di due fattori concomitanti: la tecnologia e quel «politicamente corretto» per il quale nel libro non si spende una parola.
Per contro abbondano gli umori personali. «Non amo i diminutivi», dice ad esempio Beccaria. Ma poi si esalta per i giochi di parole, insulsi, della Littizzetto e cita, come fosse un dernier cri della ricerca, un articolo inteso a dimostrare le origini zingaresche del cognome Calderoli. Più preoccupante mi sembra, per uno storico della lingua, riproporre quello che ormai, specie dopo gli studi di Luca Serianni, è diventato un luogo comune: l'italiano come lingua puramente letteraria, che, improvvisamente, «a metà del XX secolo», «diventa finalmente la lingua di tutti». E come? Per un colpo di bacchetta magica? E senza l'intervento del nuovo stato unitario? Beccaria sorvola. Afferma che «l'italiano è da difendere», ma si guarda dal dire come.
«Alla lingua non si comanda», si dice nel libro e certamente né Beccaria né il sottoscritto possono aspirare a comandarla. Ma quando si immagina una lingua che si fa da sé ed ignora tutto ciò che viene «dall'alto», si dimentica un insegnamento cardine della linguistica italiana: nella lingua usi ed innovazioni non vengono mai «dal basso». Che successo avrebbe avuto una parola come «inciucio», se non fosse stata pronunciata per la prima volta da una personalità politica? E l'anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi princípî normativi che regolano la lingua non vengono dall'alto, ossia dalla scuola? Beccaria teme che il cosiddetto «italiano medio», diventi «mediocre», e parla, alla Foucault, di un «cumulo di stereotipi che ci parlano, ci consumano lo spazio per riflettere». In realtà, quell'italiano medio non è mai esistito: non è uno standard condiviso, ma un dato ricavato a posteriori sulla base di statistiche per lo più viziate. Quello «mediocre», invece, esiste da tempo, e se oggi deborda si deve anche a quanti nelle scuole e nelle università seguitano a praticarlo.
In ogni caso la semplicità o asciuttezza, invocata sull'esempio di Calvino, può essere un ideale di scrittura (letteraria), ma non certo una ricetta valida per tutti. Una lingua comune può essere diretta ed efficace solo se validata dalla prassi, come si sapeva sin dall'Ottocento e come oggi ribadisce Paul Ricoeur scrivendo: «Il legame fra l'atto del dire e quello del fare non può essere mai del tutto spezzato». Altrimenti le parole perdono di significato.
Lucio D'Arcangelo
http://www.ilgiornale.it/news/quando-l-italiano-precipita-imbuto-e-non-ne-esce-pi.html
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