mercoledì 19 gennaio 2011

Giacomo Leopardi è a tutt'oggi uno dei poeti più letti ed amati

Abbondano i messaggi giovanili, pieni di entusiasmo per il poeta romantico, ma anche di interrogativi: «Leopardi è veramente pessimista?» oppure in termini più banali: «Era un depresso?» Sono i clichés che soprattutto nella scuola accompagnano la figura di un poeta apparso vittima di quella «natura matrigna» indifferente ai destini dell'uomo. Ma già il De Sanctis aveva scritto: «Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto...E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore...È scettico, e ti fa credente». In realtà, Leopardi è un poeta innamorato della gioventù e tutt'altro che rassegnato alla sorte. Non pochi, tra i giovani, avvertono questa sua disposizione d'animo e mostrano di riconoscersi nel suo idealismo sentimentale. Una delle poesie più citate è, per esempio, «A Silvia», ma non manca «Il passero solitario», emblema di un momento di solitudine che molti, nell'adolescenza, attraversano. A far breccia nell'animo dei giovani è soprattutto la semplicità del dettato, resa ancora più suggestiva da quella patina di antico che il poeta studiosamente cercava. A presentare un Leopardi «positivo» ha provveduto la critica più recente. Soltanto fra il 2008 e il 2010 sono usciti ben dodici titoli, che si aggiungono alla già sterminata bibliografia leopardiana. Leopardi, ha scritto Luigi Blasucci, non è il poeta dell'orrore, ma del mancato valore, e su questo si è sostanzialmente d'accordo. Non pochi, e tra di essi è Emanuele Severino, hanno visto nell'autore dello «Zibaldone» e delle «Operette Morali» la statura del filosofo. Per Alberto Folin, ad esempio, autore di «Leopardi e il canto dell'addio» (Marsilio), Leopardi non è un pensatore «pessimista», ma neppure nihilista: il suo «nulla», cifrato nel celebre verso «e il naufragar m'è dolce in questo mare», rappresenta, nel senso di Heidegger, il nascondimento dell'Essere, che è come dire le sue infinite possibilità. Indubbiamente, come scrive Piero Bigongiari, in Leopardi la poesia è il fiore, l'acme, del pensiero, ma la novità dei Canti sta nella riappropriazione del melos, della musica, da parte della parola. Su questa linea è il saggio di Marino Brioschi «La poesia senza nome» (Il Saggiatore). Leopardi sa bene che l'opera poetica è legata al tempo storico, e perciò va alla ricerca di quella poesia assoluta, «senza nome», capace di restituire intatta la voce della natura. In questo la lezione dei classici è fondamentale, come appare anche dalle annotazioni dello Zibaldone (ad esempio, «notte bella come nella similitudine di Omero», «luna come nell'idillio di Mosco», ecc.). Si sbaglierebbe però a ritenere le «immagini antiche» dei Canti delle reminiscenze letterarie. Si tratta, in realtà, di una profonda compenetrazione con quei greci che (come disse Pietro Giordani) «gli fecero conoscer il mondo di duemil'anni addietro prima che il presente». Particolarmente suggestiva, a questo riguardo, è «La quiete dopo la tempesta». L'idillio sembra ricalcare punto per punto un frammento di Callimaco, che descrive un momento analogo: il risveglio della vita dopo il sonno della notte. Senonché Leopardi non poteva conoscere quel brano, trovato in Egitto su di una tavoletta lignea nel 1877, quarant'anni dopo la sua morte, e pubblicato dal Gomperz nel 1893. La scoperta, degna di un racconto di Borges, è di Emilio Peruzzi, appassionato studioso di Leopardi e autore dell'edizione critica dei Canti. «Leopardi - scrive Peruzzi - ha la sensibilità di un greco e perciò, come volle rifare istintivamente il canto perduto di Simonide per gli eroi delle Termopili, così qui ricrea istintivamente i versi di Callimaco (...) Il giovane recanatese non è un grande conoscitore dei greci: è un greco». Di qui quella semplicità del sentire che ci incanta ancora oggi.

Lucio D'Arcangelo

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