martedì 18 novembre 2014

IL LINGUISTA DIMENTICATO: Saussure, l’uomo che inventò lo strutturalismo (a sua insaputa)

Nessun linguista europeo è stato tanto studiato e citato come Ferdinand de Saussure.  Le ristampe del suo Cours de linguistique générale (1916) non si contano e non soltanto in francese: tra le ultime (2009) l’edizione Laterza e quella della Cambridge University Press.  Anche gli studi sulla sua opera abbondano:  tra i più recenti A Guide for the Perplexed di Paul Bouissac (2010) e Saussure di John E. Joseph (Oxford University Press, 2012). Negli Stati Uniti è uscito persino un Saussure for Beginners, illustrato con fumetti (Writers and Readers Publishing).
Ma a distanza di un secolo dalla morte la figura del linguista ginevrino seguita ad apparire enigmatica.  
Nel suo recente Ferdinand de Saussure, il linguista senza qualità Nunzio La Fauci (Università di Zurigo) paragona Saussure al contemporaneo Uomo senza qualità di Robert Musil.  Entrambi, Saussure e il personaggio di Musil, sono scettici e problematici.  Entrambi abbozzano idee e progetti che non portano a compimento o che riluttano a realizzare.  Solo che in Saussure non si tratta di dandysmo intellettuale.
Il suo maggior titolo di gloria , il Cours de linguistique générale, che raccoglie le lezioni tenute dal 1907 al 1911, uscì postumo nel 1916 e non fu scritto da lui.  Il testo fu redatto da due suoi discepoli, i linguisti ginevrini Charles Bally e Albert Séchehaye , i quali usarono per la stesura i propri appunti e quelli lasciati da altri cinque discepoli oltre che da Saussure stesso.  A cosa si deve questa riluttanza a pubblicare?
In una lettera al celebre comparatista Antoine Meillet del 4 gennaio 1894 Saussure mostra di ritenere del tutto strumentale l'impresa a cui , “senza entusiasmo”, si era accinto: far comprendere "che cos'è la lingua in generale”.  «In ultima analisi, scrive, l'unica cosa che conserva per me un forte interesse è l'aspetto per così dire etnografico di una lingua, quell'aspetto pittoresco che la differenzia da tutte le altre, in quanto appartenente ad un popolo con determinate origini».
 Quella linguistica generale, che molti considerano esclusivo merito di Saussure, nasce da un testo scritto "malgré soi”. Quasi tutti gli esegeti del Cours hanno trascurato questo aspetto fondamentale.
L’idea della lingua come “struttura” ovvero come un tutto coerente (dans la langue tout se tient) era già in nuce nella pratica dei linguisti contemporanei di Saussure, soprattutto tedeschi, i cosiddetti “neogrammatici”. Ma fu merito del linguista ginevrino portarla alla luce, distinguendo tra la langue, che rappresenta la dimensione sociale del linguaggio ed è una realtà astratta, impersonale, e la parole, che è concreta e individuale.  Questa dicotomia, che che tendeva a delimitare in campo , tuttora in discussione, della linguistica, fu assunta come un dogma dai successori di Saussure, con ciò fraintendendo il suo vero intento, che era quello di porre problemi più che di risolverli.  Lo stesso accadde negli anni ’70 con un revival che andò ben oltre la linguistica.   Il cosiddetto “strutturalismo” , estrapolato dal Cours, divenne l’ortodossia dominante nelle “scienze umane” e Foucault ne fece una nuova metafisica, che dopo la morte di Dio annunciava quella dell’Uomo.
Caso non meno sorprendente: la popolarità di Saussure si deve alla parte più problematica e controversa, se non proprio apocrifa,  del suo insegnamento:  quella nozione di “arbitrarietà del segno” tante volte citata, più o meno a sproposito, ed arrivata persino al cinema con Prima la musica, poi le parole (2002) di Fulvio Wetzl.
Saussure definì arbitrario il segno linguistico in quanto non c’è nessun rapporto evidente (trasparente) tra significante e significato: ad esempio, tra l'idea di "cane" e la parola che lo designa.  Ma nel corso delle sue lezioni era tornato più volte sul concetto, chiarendo, ad esempio, che non tutte le parole di una lingua si possono dire arbitrarie perchè molte sono derivate o motivate etimologicamente.  Tuttavia, anche per colpa di chi aveva trascritto e revisionato il testo delle lezioni, la nozione restava ambigua.  Saussure in ogni caso sembrava escludere che ( a parte le onomatopee) la parola potesse avere in sè qualcosa di "iconico”: fosse cioè un’imitazione del significato , come avviene, ad esempio, con termini come “allappare”, “goffo”, “ghirigoro”, ecc.
Senonché gli studi a cui si dedicò negli ultimi anni finirono per contraddire le lezioni del Cours .  Studiando la poesia latina arcaica, Saussure scoprì che in queste composizioni le lettere che formano il nome della divinità si ripetono nelle parole di ogni verso con una regolarità quasi matematica, formando, come nel racconto di Henry James, un “disegno sul tappeto”.  Il significante, ossia il puro suono, si emancipa dal significato assumendo un valore ulteriore , che è quello stesso della poesia.   Saussure aveva scoperto il tao della lingua?  La sua reclusione nel castello di Wufflens, a Ginevra, dove morì, il  27 febbraio del 1913, appare sotto questo profilo emblematica.

Lucio D'Arcangelo



sabato 22 dicembre 2012

Milton, Rilke, Pound: ecco i poeti italiani

L’italiano, anche fuori dall’Italia, è stato per secoli la lingua della poesia (lingua della prosa divenne il francese). Scrivevano in italiano Raimbaut de Vaqueiras, Quevedo, Milton, Byron, Shelley, Rilke, Rossetti, Gogol’ e Pound solo per limitarsi ai più noti.


Frequentavano la lingua di Dante anche Voltaire e Montaigne. Nei vari generi poetici si cimentarono tali e tanti autori, minori e minimi, da renderne impossibile il censimento, e la messe di componimenti, anche encomiastici (scritti su commissione), che ne derivò, si può paragonare, per numero e qualità, ai quadri di scuola italiana sparsi nei musei di tutto il mondo, e non solo in quelli.

Ma quale fu il motivo di tanto successo? Nel nostro Paese, nei vari generi poetici si cimentarono tali e tanti autori, minori e minimi, che un censimento è impossibile. Senza contare la poesia «estemporanea»: parlare in versi fu una specialità tipicamente italiana, applaudita nelle accademie, nei teatri, e nelle piazze. Come notava Ennio Flaiano, i luoghi comuni sul carattere dei popoli non sono mai privi di fondamento ed anche quello degli italiani «popolo di poeti» non lo è, o perlomeno non lo è stato. Ancora nel Novecento Leo Spitzer rilevava questa tendenza «poetica» nel modo di scrivere, e di parlare, di molti italiani. Ben ha fatto quindi Luca Serianni ad includere nel suo recente libro La lingua poetica italiana. Grammatica e testi (Carocci, Roma, 2009), anche forme minori di versificazione (ad esempio la librettistica), che non sono meno significative di quelle maggiori. Come lo stesso Serianni annota, «il tema è centrale per l’identità linguistica degli italiani».

«La lingua poetica (dal Petrarca fino al secondo Ottocento) ha mantenuto una fisionomia specifica e un’eccezionale stabilità, tanto da configurare - come scriveva alla fine del Cinquecento Leonardo Salviati - quasi un altro idioma diverso dalla prosa», scrive Serianni.


Non si tratta tanto di lessico, quanto di una «grammatica» poetica, che nasce nel Trecento, si consolida nel Cinquecento e giunge fino al Novecento, facendo emergere una serie di tratti comuni, fonetici e morfologici, di più o meno lunga durata. Il testo critico è corredato da una rassegna di trenta poesie, ampiamente commentate, che vanno dal XIII secolo (Madonna, dir vi voglio di Giacomo da Lentini) al XIX (Carducci). Accanto ai Tasso, Marino, Metastasio, Leopardi ecc. sono rappresentati anche i minori: ad esempio Gabriello Chiabrera (1552-1638), noto per le sue innovazioni metriche, e Giuseppe Giusti (1809-1850) con il suo «scherzo» poetico più famoso, Il re Travicello.

La silloge di Serianni, tuttavia, non si ferma ai poeti «laureati», ma si allarga ad autori anche marginali come il secentista Paolo Zazzaroni con In morte di un cane e l’oraziano Giovanni Fantoni (1755-1807), in un ventaglio di esempi difformi, ma solidali con il principio «linguistico» che regge il libro. La nutrita schiera dei verseggiatori per diletto e con fini persino pratici è rappresentata dal quasi sconosciuto Giovanni Dondi dall’Orologio (1318-1389), medico ed astronomo, poeta a tempo perso per sua stessa ammissione.
Si è soliti ripetere che in confronto alle altre lingue europee l’italiano è stato una lingua «immobile», e ciò indubbiamente deriva dalla tendenza ad identificarlo troppo strettamente con la lingua poetica, come fa notare Serianni. Ma questa (relativa) stabilità non fu così negativa come si pensa.

Grazie ad essa la nostra lingua potè rendersi indipendente dal frazionamento dialettale e politico e grazie alle sue espressioni poetiche (Petrarca e l’Arcadia in particolare) divenne in tutta Europa un modello da seguire ed imitare. Non è tutto. Se oggi, differentemente da francesi ed inglesi, possiamo leggere facilmente i nostri testi più antichi lo dobbiamo a questa lingua che ha sfidato i secoli ed è tuttora la nostra lingua, come si vede dagli straordinari versi del Poliziano: «I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino/ di mezzo maggio in un verde giardino».

Lucio D'Arcangelo

http://www.ilgiornale.it/news/milton-rilke-pound-ecco-i-poeti-italiani.html

mercoledì 19 gennaio 2011

Giacomo Leopardi è a tutt'oggi uno dei poeti più letti ed amati

Abbondano i messaggi giovanili, pieni di entusiasmo per il poeta romantico, ma anche di interrogativi: «Leopardi è veramente pessimista?» oppure in termini più banali: «Era un depresso?» Sono i clichés che soprattutto nella scuola accompagnano la figura di un poeta apparso vittima di quella «natura matrigna» indifferente ai destini dell'uomo. Ma già il De Sanctis aveva scritto: «Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto...E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore...È scettico, e ti fa credente». In realtà, Leopardi è un poeta innamorato della gioventù e tutt'altro che rassegnato alla sorte. Non pochi, tra i giovani, avvertono questa sua disposizione d'animo e mostrano di riconoscersi nel suo idealismo sentimentale. Una delle poesie più citate è, per esempio, «A Silvia», ma non manca «Il passero solitario», emblema di un momento di solitudine che molti, nell'adolescenza, attraversano. A far breccia nell'animo dei giovani è soprattutto la semplicità del dettato, resa ancora più suggestiva da quella patina di antico che il poeta studiosamente cercava. A presentare un Leopardi «positivo» ha provveduto la critica più recente. Soltanto fra il 2008 e il 2010 sono usciti ben dodici titoli, che si aggiungono alla già sterminata bibliografia leopardiana. Leopardi, ha scritto Luigi Blasucci, non è il poeta dell'orrore, ma del mancato valore, e su questo si è sostanzialmente d'accordo. Non pochi, e tra di essi è Emanuele Severino, hanno visto nell'autore dello «Zibaldone» e delle «Operette Morali» la statura del filosofo. Per Alberto Folin, ad esempio, autore di «Leopardi e il canto dell'addio» (Marsilio), Leopardi non è un pensatore «pessimista», ma neppure nihilista: il suo «nulla», cifrato nel celebre verso «e il naufragar m'è dolce in questo mare», rappresenta, nel senso di Heidegger, il nascondimento dell'Essere, che è come dire le sue infinite possibilità. Indubbiamente, come scrive Piero Bigongiari, in Leopardi la poesia è il fiore, l'acme, del pensiero, ma la novità dei Canti sta nella riappropriazione del melos, della musica, da parte della parola. Su questa linea è il saggio di Marino Brioschi «La poesia senza nome» (Il Saggiatore). Leopardi sa bene che l'opera poetica è legata al tempo storico, e perciò va alla ricerca di quella poesia assoluta, «senza nome», capace di restituire intatta la voce della natura. In questo la lezione dei classici è fondamentale, come appare anche dalle annotazioni dello Zibaldone (ad esempio, «notte bella come nella similitudine di Omero», «luna come nell'idillio di Mosco», ecc.). Si sbaglierebbe però a ritenere le «immagini antiche» dei Canti delle reminiscenze letterarie. Si tratta, in realtà, di una profonda compenetrazione con quei greci che (come disse Pietro Giordani) «gli fecero conoscer il mondo di duemil'anni addietro prima che il presente». Particolarmente suggestiva, a questo riguardo, è «La quiete dopo la tempesta». L'idillio sembra ricalcare punto per punto un frammento di Callimaco, che descrive un momento analogo: il risveglio della vita dopo il sonno della notte. Senonché Leopardi non poteva conoscere quel brano, trovato in Egitto su di una tavoletta lignea nel 1877, quarant'anni dopo la sua morte, e pubblicato dal Gomperz nel 1893. La scoperta, degna di un racconto di Borges, è di Emilio Peruzzi, appassionato studioso di Leopardi e autore dell'edizione critica dei Canti. «Leopardi - scrive Peruzzi - ha la sensibilità di un greco e perciò, come volle rifare istintivamente il canto perduto di Simonide per gli eroi delle Termopili, così qui ricrea istintivamente i versi di Callimaco (...) Il giovane recanatese non è un grande conoscitore dei greci: è un greco». Di qui quella semplicità del sentire che ci incanta ancora oggi.

Lucio D'Arcangelo

http://www.iltempo.it/cultura-spettacoli/2011/01/19/di-lucio-d-arcangelo-br-giacomo-leopardi-e-a-tutt-oggi-uno-dei-poeti-piu-letti-ed-amati-1.100168

venerdì 20 agosto 2010

Quando l’'italiano precipita dentro un imbuto e non ne esce più

Il lettore che pensava di trovare un «libro», ossia un discorso organico sulla lingua, nel recente Il mare in un imbuto di Gian Luigi Beccaria, rimarrà deluso. Si tratta, infatti, di una serie di «pezzi» d'occasione, a carattere più didattico che giornalistico, in cui, ad esempio, si spiega che la lingua non segue la logica o che non è fatta solo di parole, ma anche di frasi idiomatiche: cosa che, a dire il vero, tutti sanno. Il più delle volte si opina ( i «penso», «ricordo», «sospetto» abbondano) e l'opinione, si sa, è mutevole, anche se il timore di incorrere in «scorrettezze politiche» è sempre presente. Così, dopo aver «detto ogni bene dell'inglese e dell'esser misti (sic)», l'autore ammette «che la spinta dell'inglese d'America raggiunge oggi eccessi di aggressività di molto superiore a quanto accadeva in passato con altre lingue straniere». Ma il discorso resta in superficie. Non ci si chiede quali siano le cause dell'anglicizzazione, che non è tanto un male in sé, quanto il sintomo, anche se tra i più vistosi, di una disaffezione alla lingua nazionale che dal '70 in poi è stata incoraggiata in mille modi. Il degrado a cui assistiamo oggi non è una fatalità, come sembra pensare Beccaria, ma trova origine in una «volontà politica», espressasi persino nel dettato costituzionale, dove la lingua italiana brilla per la sua assenza. Nessuna meraviglia, quindi, che come notava Giovanni Nencioni, in Italia sia mancata «una politica della lingua» e «una coscienza politica della lingua», o, per meglio dire, se ne sia sviluppata una all'incontrario, come anche questo libro dimostra.
L'autore ha gioco facile nel deplorare «l'antilingua» della burocrazia, delle aziende e dei giornali, di cui offre numerosi esempi. Ma anche qui viene eluso il vero problema, che non è solo italiano, e sta nella pervasività di due fattori concomitanti: la tecnologia e quel «politicamente corretto» per il quale nel libro non si spende una parola.
Per contro abbondano gli umori personali. «Non amo i diminutivi», dice ad esempio Beccaria. Ma poi si esalta per i giochi di parole, insulsi, della Littizzetto e cita, come fosse un dernier cri della ricerca, un articolo inteso a dimostrare le origini zingaresche del cognome Calderoli. Più preoccupante mi sembra, per uno storico della lingua, riproporre quello che ormai, specie dopo gli studi di Luca Serianni, è diventato un luogo comune: l'italiano come lingua puramente letteraria, che, improvvisamente, «a metà del XX secolo», «diventa finalmente la lingua di tutti». E come? Per un colpo di bacchetta magica? E senza l'intervento del nuovo stato unitario? Beccaria sorvola. Afferma che «l'italiano è da difendere», ma si guarda dal dire come.
«Alla lingua non si comanda», si dice nel libro e certamente né Beccaria né il sottoscritto possono aspirare a comandarla. Ma quando si immagina una lingua che si fa da sé ed ignora tutto ciò che viene «dall'alto», si dimentica un insegnamento cardine della linguistica italiana: nella lingua usi ed innovazioni non vengono mai «dal basso». Che successo avrebbe avuto una parola come «inciucio», se non fosse stata pronunciata per la prima volta da una personalità politica? E l'anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi princípî normativi che regolano la lingua non vengono dall'alto, ossia dalla scuola? Beccaria teme che il cosiddetto «italiano medio», diventi «mediocre», e parla, alla Foucault, di un «cumulo di stereotipi che ci parlano, ci consumano lo spazio per riflettere». In realtà, quell'italiano medio non è mai esistito: non è uno standard condiviso, ma un dato ricavato a posteriori sulla base di statistiche per lo più viziate. Quello «mediocre», invece, esiste da tempo, e se oggi deborda si deve anche a quanti nelle scuole e nelle università seguitano a praticarlo.
In ogni caso la semplicità o asciuttezza, invocata sull'esempio di Calvino, può essere un ideale di scrittura (letteraria), ma non certo una ricetta valida per tutti. Una lingua comune può essere diretta ed efficace solo se validata dalla prassi, come si sapeva sin dall'Ottocento e come oggi ribadisce Paul Ricoeur scrivendo: «Il legame fra l'atto del dire e quello del fare non può essere mai del tutto spezzato». Altrimenti le parole perdono di significato.

Lucio D'Arcangelo

http://www.ilgiornale.it/news/quando-l-italiano-precipita-imbuto-e-non-ne-esce-pi.html